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Paolo Baratella

Paolo Baratella nasce a Bologna nel 1935 da genitori ferraresi. Trascorre l’infanzia a Bologna in Via Lame. Il negozio del papà sarto in centro, al servizio del regio esercito; poi la guerra.
Nel 1940 il ritorno della famiglia a Ferrara che accende nel suo orizzontale e nebbioso splendore, un mondo di misteriose presenze. Il bimbo Baratella, sotto le bombe americane vestito da figlio della lupa, vince in prima elementare il corso di disegno. A sei anni decide che sarà un pittore, e sarà grande almeno quanto Capuzzo ferrarese, pittore eclettico sul barcone di Codigoro.

La tragedia della guerra, lo sfollamento, i rifugi antiaerei, le bombe, i bengala, le buche scavate nella terra, il teatro dei burattini, le grandi passioni trasmesse da quel burattinaio che si chiamava Forni e, dopo la guerra, la compagnia teatrale Doriglia/Palmi, i trasalimenti per le grandi tragedie dell’uomo stilizzate in baracconamenti di luci e ombre nette. E Gigetto il gelataio di Vicolo Mozzo Orcaballetta con quei carretti a draghi e cigni cari a Visconti in Ossessione, laggiù nella Piazza Castello sempre a Ferrara.

Realtà negli occhi di un fanciullo, i maestri dell’educazione estetica, oltre alla fame e alla miseria, alle grandi manifestazioni contro gli agrari: “Hanno ucciso Boari…” silenzio, una tragedia, il padre fascista commentava… Prova a dipingere con l’olio d’oliva Dante e i tubetti trovati, sulle anime delle pozze di tessuto del papà sarto e della mamma sarta, che il mondo era fatto di sarti, eppoi, di santi e di pittori che andavano nelle chiese per la minestra e decoravano il cinemino della parrocchia dei Frati Francescani: ma quale Liceo Artistico Dosso Dossi! Cosmè Tura, Cossa, Ercole De Roberti, eccoli a Schifanoia per stupire, coi primi peli di barba e foruncoli e geometrali ragionamenti con un compagno virtuale di nome De Chirico Giorgio, eppoi il ‘54/55 a Procida, isola del poeta, a cantar d’amore dopo aver sgranato occhi e anima su campi di concentramento nazisti, in una mostra fotografica al ridotto del Teatro Comunale; fuggito da tutto, voglia d’annientamento.

E giù a dipingere in un solaio al n. 8 di Via Montebello a parlare le notti di Kant e Nietzsche, mentre turbamenti mistici continuavano a minacciare l’integrità dell’atleta ciclista, alla ricerca solitaria di Dio.