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Franco Dugo

Franco Dugo è nato a Gargaro (Grgar), in Slovenia, il 9 giugno 1941, ma vive e lavora da sempre a Gorizia. La sua città natale, essendo una terra di confine, a metà fra il mondo italiano e quello slavo, in quella mitteleuropa che è stata crogiolo di popoli e di idee, ha influenzato notevolmente le sue vicende personali e la sua formazione artistica. Ha iniziato a dipingere abbastanza tardi, dopo anni di tumultuose esperienze che lo hanno vista prima pugile dilettante, operaio e militante politico, e poi attore e scenografo di teatro. Dopo anni di impegno nella grafica, nel 1992 è tornato a dedicarsi esclusivamente alla pittura, concentrandosi soprattutto sul paesaggio. Si tratta di oli e pastelli che approfondiscono e dilatano il sentimento della natura, come evocazione di atmosfere interiori e insieme rapporto con l’oggettiva e quotidiana realtà. Nel frattempo, ha continuato a lavorare al ritratto, un genere che attraversa tutta la sua produzione: a olio, pastello, disegno, acquerello e calcografia.

Sono viaggi dello sguardo questi che Franco Dugo conduce ormai da un decennio, da quando il pastello è entrato a pieno titolo nel suo mondo dell’immaginazione e della ricostruzione fantastica, e ne è anzi diventato lo strumento principale di racconto, quello prediletto e sempre più aderente alla vera ragione del suo pensiero. Ed è stato proprio il pastello, con la sua polvere impalpabile, a trarlo lontano dall’infallibità chirurgica dell’incisione, che per tanti anni ne aveva caratterizzato il procedere. A ben vedere infatti, le incisioni degli anni più recenti, e penso sopratutto ad una bellissima serie di paesaggi realizzati tra 1998 e 1999, hanno componenti non poco diverse dalle precedenti. Molto spessp l’acquaforte tocca livelli di morbidezza e pittoricità che sono propri dell’acquapinta, senza che Dugo comunque se ne serva. E’ fin troppo evidente che adesso tutta la sua visione è sottoposta al filtro fortissimo e poetico che fanno i pastelli,

alla loro intenzione di essere un mondo nuovo, fondato su altre regole che non fossero prima quelle della lastra incisa. E’significativo vedere come da un’eccesso perfino di realtà, egli sia passato a questo sguardo fantastico, che se ha un punto vero di contatto con il paessaggio del Carso attorno a Gorizia, poi se ne

distanzia. E’ difficile dire quanto della descrizione lancinante e assassina dei ramigliaitratti, culminati con il dolcissimo, straziante romanzo famigliare a cavallo tra i due ultimi decenni, sia qui rimasto. Forse niente, sarebbe la risposta più logica. Anche se più che un rovesciamento del punto di vista, si tratta invece di

comprendere una continuità, l’essere diventato, il paesaggio, volto, sostanza antropomorfa, ricordo del sangue, memoria di luoghi che hanno ospitato storie, persone, fatti. E mi pare che finora poco si sia insistito su questo pensiero, avendo tutti più o meno puntato, nel commentare, coem fosse sorto dal nulla, proprio da una polla carsica, l’amore così connaturato verso la natura. Senza ricordare che non era praticamente mai comparsa, e se era accduto era stato semplicemente per costituirsi come fondale, come apparato scenografico affinchè le figure designate o incise, talvolta dipinte, non si presentassero sul palcoscenico

vuoto dell’inesistente. Quindi questa distanza, segnata da una segreta continuità sotterranea, separa le figure dai paesaggi. Che oggi, dopo dieci anni, più che designare un mondo lo fanno nascere, lo creano ab antiquo, insistendo sempre più su una luce colorata che si sfarina, si insinua entro i dorsi delle colline,

accerchia un albero altrimenti solitario, abbassa le nuvole verso la linea dell’orizzonte. Paessaggi veri e del cuore nello stesso tempo, nascono dalla realtà o forse vi ritornano, dopo essere partiti da quel luogo che non è davanti ma dentro gli occhi, continuamente si crea sotto il peso dell’invisibile e del silenzio. Paesaggi

che sono più di ogni altra cosa l’essenza del viaggio compiuto dallo sguardo tra l’occhio e la cosa guardata, e che di quel viaggio, più di tutto, portano i segni svaporanti, un bianco splendore che si leva alto sulla terra di tutta una vita. Non c’è niente che su quella terra, su questo cielo che la riscopre nell’ammasso perenne di nuvole, nella, luce che tramonta nel colore di un addio, non c’è niente che non si ricordi. Una pienezza da cui, incredibilmente, nasce la vastità del vuoto; quella dispersione raccolta nella resistenza delle nebbie alla luna che si leva, alle stelle che sfavillano, ai fuochi accesi come lumini nelle sere ultime di maggio.